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È vietata l’affissione in bacheca di debiti condominiali

Qualunque informazione relativa ai partecipanti al condominio, raccolta dall’amministratore nell’ambito della gestione condominiale, costituisce a tutti gli effetti «dato personale»

 

L’affissione, nella bacheca situata nell’androne condominiale, di dati personali riguardanti le posizioni debitorie dei singoli condòmini eccede i limiti di una comunicazione giustificata tra i condòmini stessi. Tale pratica, infatti, avviene in uno spazio accessibile al pubblico e non solo risulta superflua per le esigenze di amministrazione condominiale, ma comporta soprattutto la divulgazione di tali dati a una platea indeterminata di persone estranee. Questo costituisce una diffusione indebita dei dati, configurando una responsabilità civile sulla base degli articoli 11 e 15 del Codice per la protezione dei dati personali. Tale posizione è stata chiarita dal Tribunale di Taranto nella sentenza n. 826 del 7 aprile 2025.

 

L’indebita diffusione di dati

La sentenza è particolarmente efficace nel rilevare che, quasi sempre, l’esposizione pubblica dei dati dei morosi nella bacheca condominiale non ha l’obiettivo di informare sui fatti, ma piuttosto quello di esercitare una forma di inadeguata reprimenda. A supporto di tale interpretazione, la Corte Suprema, con la sentenza n. 29323 del 7 ottobre 2022, ha chiaramente stabilito che anche la comunicazione in bacheca dell’avviso di convocazione dell’assemblea, contenente il nominativo di un condòmino non in regola con i pagamenti, rappresenta una diffusione illecita di dati personali.

 

Cosa si può pubblicare in bacheca

È sorprendente che il concetto non sia ancora diffusamente conosciuto e applicato, nonostante la sentenza della Corte Suprema n. 186 del 4 gennaio 2018 abbia chiarito che qualsiasi informazione riguardante i partecipanti al condominio, raccolta dall’amministratore nel contesto della gestione condominiale, costituisce a tutti gli effetti un “dato personale”. Di conseguenza, il trattamento e la diffusione di tali dati devono rispettare le disposizioni del Decreto Legislativo 196/2003 e del Regolamento Europeo 679/2016 (come evidenziato anche nelle sentenze della Cassazione n. 17665/2018 e n. 15186/2021).

Ciò comporta l’obbligo di rispettare i principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza in relazione alle finalità per cui i dati sono raccolti. Sebbene sia vietato esporre pubblicamente i morosi, tale divieto non ostacola in alcun modo il diritto di ogni condomino a conoscere gli eventuali inadempimenti altrui verso la collettività condominiale. Tuttavia, queste informazioni devono rimanere confinate alla cerchia strettamente condominiale, mentre le comunicazioni riportate sulla bacheca condominiale devono mantenere un carattere generale e riferirsi esclusivamente a beni e servizi comuni.

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Privacy: la registrazione delle assemblee condominiali, quando è possibile e a quali condizioni

Devono essere previamente autorizzate da delibera, limitate, sicure e cancellate dopo l’uso previsto

È lecito registrare l’assemblea condominiale? Chi ha l’autorità per farlo? E, soprattutto, quali misure devono essere adottate per garantire il rispetto della normativa sulla privacy? Questi interrogativi stanno diventando sempre più comuni nella gestione delle dinamiche condominiali, complice l’aumento delle controversie e il crescente bisogno di trasparenza. A questo proposito, le Linee Guida 2025 del Garante per la protezione dei dati personali, contenute nel documento di indirizzo sul trattamento dei dati in ambito condominiale, offrono oggi una risposta precisa, bilanciando trasparenza, correttezza e salvaguardia della riservatezza dei partecipanti.

 

Registrazione da deliberare

La registrazione audiovisiva o esclusivamente audio dell’assemblea rappresenta un trattamento di dati personali, in quanto consente di identificare, direttamente o indirettamente, i partecipanti, le loro dichiarazioni, le opinioni espresse e persino le modalità di voto. Per questo motivo, non può essere effettuata in modo arbitrario. In linea generale, una registrazione è consentita solo se approvata dall’assemblea stessa con la maggioranza dei presenti e preceduta da un’adeguata informativa diretta a tutti i partecipanti, da comunicare prima dell’inizio dell’incontro. Non è quindi mai permesso che un singolo condomino proceda autonomamente alla registrazione dell’assemblea senza informare né aver ottenuto il consenso degli altri, poiché tale comportamento configurerebbe un trattamento illecito, come più volte sottolineato dal Garante.

 

Il contenuto della delibera

Le finalità legittime per effettuare una registrazione possono variare, ma devono sempre essere chiaramente specificate nella delibera. Tali finalità possono includere la redazione del verbale, la documentazione delle attività svolte o l’attestazione di quanto accaduto durante l’assemblea. In ogni caso, non è mai consentita la diffusione delle registrazioni al di fuori della sfera condominiale, così come la loro pubblicazione online o l’invio indiscriminato tramite email o WhatsApp. A tal proposito, il Garante stabilisce con fermezza che la registrazione deve essere conservata solo per il tempo strettamente necessario alla stesura del verbale o alla verifica delle decisioni prese e deve essere eliminata una volta esaurito lo scopo per cui è stata effettuata.

L’utilizzo della registrazione per finalità di tutela legale, ad esempio in caso di contestazioni relative a una delibera, può essere ammissibile, ma deve essere esaminato caso per caso alla luce dei principi di liceità, minimizzazione e necessità. Anche in tali circostanze, è indispensabile fornire un’informativa dedicata e garantire che l’accesso alle registrazioni rimanga limitato esclusivamente alle parti coinvolte nel procedimento.

 

Inserimento nel registro

Le Linee Guida 2025 stabiliscono che il trattamento dei dati deve sempre essere documentato per essere considerato lecito. Qualora sia l’amministratore a occuparsi della registrazione, questi è tenuto a registrarla nel registro delle attività di trattamento e ad adottare misure di sicurezza adeguate, come la protezione dell’accesso alle registrazioni, la cifratura dei file e la cancellazione automatica una volta decorso il termine stabilito. I file non possono essere conservati indefinitamente sul computer dello studio amministrativo né trasferiti senza controllo attraverso canali non sicuri, come chat informali o gruppi WhatsApp. Anche in questo ambito, il Garante raccomanda massima cautela, precisando che le comunicazioni elettroniche contenenti dati personali devono avvenire mediante canali sicuri e protetti da accessi non autorizzati.

È inoltre fondamentale sottolineare che il diritto di effettuare registrazioni non è una prerogativa individuale di un singolo condomino. Solo una delibera assembleare, approvata secondo le modalità previste dalla legge, può autorizzare la registrazione di un incontro. Registrazioni effettuate con modalità differenti, come quelle realizzate di nascosto, possono essere segnalate al Garante o utilizzate in sede giudiziaria solo nei rari casi eccezionali riconosciuti dalla giurisprudenza, ad esempio se si configurano come prove in un procedimento penale in presenza di un reato.

 

La registrazione senza via libera è illecità

È importante sottolineare che l’amministratore di condominio non può procedere autonomamente con la registrazione dell’assemblea senza una specifica delibera approvata dai condòmini, secondo le maggioranze stabilite dalla legge. Tale attività non rientra tra i suoi poteri ordinari e non può essere giustificata neppure invocando il principio di trasparenza o la necessità di redigere il verbale, a meno che non vi sia un’esplicita autorizzazione. Le Linee Guida 2025 del Garante per la privacy chiariscono infatti che la registrazione delle assemblee condominiali è possibile solo previa delibera assembleare che specifichi le finalità della registrazione e a seguito di un’adeguata informativa ai partecipanti. L’amministratore, quindi, non ha il diritto di effettuare registrazioni su iniziativa personale. Di conseguenza, qualsiasi registrazione effettuata senza informare preventivamente i partecipanti o senza l’approvazione dell’assemblea è considerata illecita e può configurare una violazione dei diritti degli stessi, con tutte le relative conseguenze, incluse eventuali sanzioni previste dal GDPR.

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Risarcimento a chi scivola nel cortile solo se prova il nesso tra caduta e pavimentazione

 La caduta avvenuta in un cortile condominiale è al centro dell’ordinanza della Cassazione 22283/2025, resa pubblica il 2 agosto. L’episodio ha origine dall’azione legale promossa da una donna che, scivolando nell’androne di un condominio a Milano, ha attribuito l’incidente allo stato della pavimentazione, descritta come eccessivamente lucida, e alla presenza di neve, ghiaccio e acqua accumulatisi dopo una copiosa nevicata. La donna aveva avanzato una richiesta di risarcimento nei confronti del condominio, che a sua volta aveva coinvolto l’assicurazione dello stabile. Tuttavia, la signora, risultata soccombente sia in primo che in secondo grado per non aver dimostrato adeguatamente il legame tra le condizioni della pavimentazione e la caduta, ha deciso di ricorrere alla Corte di Cassazione.

 

La natura oggettiva della responsabilità del custode

Nemmeno la Suprema Corte ha accolto le ragioni della parte danneggiata. Facendo riferimento alla sentenza di Cassazione n. 11152/2023, i giudici di legittimità hanno sottolineato che la responsabilità prevista dall’articolo 2051 del Codice Civile è di natura oggettiva, poiché si basa esclusivamente sulla prova del nesso causale tra la cosa custodita e il danno.

Tale responsabilità non si fonda su una presunzione di colpa del custode, ma su un criterio di imputazione che attribuisce a chi detiene la custodia della cosa il compito di rispondere per determinati eventi, indipendentemente da qualsiasi elemento di colpa nel comportamento del custode.

 

La prova del nesso causale

Per quanto riguarda la richiesta di risarcimento, il danneggiato deve dimostrare l’esistenza di un nesso di causalità tra il danno subito e l’oggetto in custodia, nonché le eventuali misure che avrebbero dovuto essere adottate per prevenire il verificarsi dell’evento. Questo principio, sancito dalla Cassazione (sentenza 22764/2024), stabilisce che il risarcimento è legittimato solo qualora sia provato il collegamento causale tra la cosa e il danno, prescindendo dalle caratteristiche intrinseche o dalla pericolosità dell’oggetto stesso. Inserire l’avvenimento in un contesto specifico, come ad esempio un androne, non basta: è fondamentale dimostrare la concreta dinamica dell’accaduto, vale a dire l’insieme dei fattori e la sequenza dei fatti che hanno portato alla generazione dell’evento, evidenziandone gli effetti determinanti.

 

L’imprudenza della vittima

La signora non ha fornito prove che l’incidente si sia verificato esattamente nel tratto innevato. Di conseguenza, viene meno il collegamento con le condizioni dell’androne e si evidenzia un’altra questione: la negligenza della stessa signora. In qualità di condomina e consapevole delle condizioni meteorologiche, ha attraversato lo spazio comune senza adottare alcuna precauzione.

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Agevolazione prima casa anche per immobili in costruzione

La Nota II bis dell’articolo 1 della Tariffa, Parte I, allegata al DPR 131/1986, che regola l’agevolazione per l’acquisto della prima casa ai fini dell’imposta di registro, è applicabile anche nei casi di permuta in cui si cede un bene esistente in cambio dell’impegno a costruire una futura unità immobiliare abitativa (nota come permuta tra cosa presente e cosa futura o “cambio camere”). Questo beneficio è previsto a condizione che l’operazione abbia lo scopo di garantire all’acquirente la propria prima abitazione e che l’immobile sia effettivamente destinato a uso residenziale, rispettando i requisiti stabiliti dalla legge. Tale interpretazione è stata confermata dalla Cassazione con l’ordinanza n. 25761, pubblicata il 22 settembre 2025.

 

La vicenda processuale

Nel caso analizzato, tre privati hanno ceduto la proprietà di un immobile a una società a responsabilità limitata, con l’impegno da parte di quest’ultima di realizzare tre unità abitative. Il progetto edilizio è stato completato entro il termine di tre anni dalla registrazione dell’atto notarile. Nonostante ciò, l’Amministrazione finanziaria ha emesso un avviso di liquidazione per il recupero della maggiore imposta, ritenendo che l’agevolazione “prima casa” fosse revocabile. Tale decisione amministrativa è stata contestata e il giudice d’appello ha annullato l’avviso, considerando che la natura atipica del contratto di permuta non precludesse l’applicazione dell’agevolazione. Successivamente, l’Amministrazione ha presentato ricorso in Cassazione, sostenendo l’inapplicabilità dell’agevolazione al caso specifico, basandosi sulla differenza tra cosa presente e cosa futura.

 

La destinazione del bene

La Corte di Cassazione, respingendo le obiezioni sollevate dall’Amministrazione, ha ribadito un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui l’agevolazione “prima casa” è applicabile anche all’acquirente di un immobile in fase di costruzione, a patto che lo stesso sia destinato a uso abitativo principale e non rientri nelle categorie catastali di lusso. La conservazione del beneficio è condizionata all’ultimazione dell’immobile entro il termine di tre anni previsto dall’articolo 76, comma 2, del Dpr 131/1986, scadenza che incide sulla possibilità dell’Amministrazione di verificare il possesso dei requisiti necessari per il godimento dell’agevolazione (sentenza della Cassazione 5180/2022).

La Corte ha inoltre sottolineato la logica sottesa alla Nota II bis, che mira a favorire l’acquisto della prima abitazione. Escludere l’agevolazione nei confronti di chi acquista un immobile non ancora completato determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento rispetto a chi compra un immobile già ultimato. Su questo punto si è espressa favorevolmente anche la giurisprudenza di legittimità in casi riguardanti acquirenti di fabbricati collabenti, purché suscettibili di interventi edilizi finalizzati alla trasformazione in abitazioni principali (ordinanza 3913/2025).

Dal ragionamento adottato dalla Corte si deduce che, ai fini dell’applicazione delle agevolazioni previste per l’acquisto della prima casa, prevale la reale destinazione dell’immobile a residenza principale dell’acquirente rispetto alle condizioni materiali o procedurali dell’immobile al momento dell’acquisto. Di conseguenza, anche la permuta tramite cui si cede un bene già esistente in cambio della costruzione di una futura unità abitativa può rientrare nell’ambito della Nota II bis, purché tale operazione sia finalizzata ad assicurare la prima casa e la destinazione a residenza venga effettivamente realizzata entro i termini stabiliti dalla legge.

 

Il trasferimento di residenza

L’ordinanza 25761/2025 non ha fornito una soluzione definitiva riguardo al termine entro cui l’acquirente di un immobile in costruzione deve trasferire la propria residenza nel Comune dove si trova l’immobile per usufruire dell’agevolazione prevista. La questione è oggetto di dibattito sia in ambito dottrinale che giurisprudenziale: da un lato, la Corte di Cassazione, con la sentenza 17867/2022, ha riconosciuto applicabile anche a questa fattispecie il termine di 18 mesi a partire dalla data di acquisto per il trasferimento della residenza, equiparando l’acquisto dell’immobile in costruzione all’acquisto di un immobile già completato; dall’altro, decisioni di merito hanno adottato posizioni divergenti, dando luogo a orientamenti non uniformi.

La distinzione tra il termine di tre anni per il completamento dell’immobile e quello di 18 mesi per il trasferimento della residenza si basa sulla diversa natura degli istituti normativi coinvolti: il legislatore ha esplicitamente fissato il termine entro cui va trasferita la residenza, mentre non ha definito alcuna scadenza per la realizzazione dell’edificio. Questa differenza comporta, nei casi in cui l’immobile non risulti completato entro i 18 mesi, che il contribuente possa trovarsi nella condizione di dover trasferire la propria residenza in un altro immobile situato nello stesso Comune, con lo scopo di mantenere il beneficio fiscale. Tale questione solleva la necessità di una riflessione critica in chiave interpretativa e di un possibile intervento normativo, al fine di eliminare ambiguità applicative e prevenire eventuali disparità di trattamento.

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Parcheggio condominiale: legittimo un uso diverso tra appartamenti e cantine

È ragionevole che questi ultimi utilizzino l’area solo per il tempo necessario ad alcune operazioni e con una sola auto alla volta

 

Il diritto di parcheggiare non sempre può essere garantito a tutti i condòmini quando l’area comune destinata a tale uso risulta insufficiente. In tali casi, è legittimo adottare un sistema di utilizzo turnario per regolamentarne l’accesso.

Una questione specifica riguardante l’uso turnario del parcheggio è stata esaminata prima dal Tribunale e poi dalla Corte d’Appello. La controversia era stata sollevata dai proprietari di due cantine che rivendicavano il diritto di accedere al parcheggio turnario, al pari degli altri condòmini residenti nello stabile. Secondo loro, tale diritto veniva violato dal divieto sancito dal regolamento condominiale, considerato ingiusto e discriminatorio nei loro confronti. La vicenda è stata oggetto della sentenza 952/2025 pronunciata dalla Corte d’Appello di Genova.

 

L’esclusione dall’uso di alcuni condòmini

L’uso dell’area pertinenziale era stato oggetto di due delibere con cui la maggioranza dell’assemblea aveva escluso i condòmini proprietari di sole cantine dalla possibilità di parcheggiare. Tali delibere, tuttavia, erano state dichiarate nulle dal Tribunale poiché, violando l’articolo 1102 del Codice civile, impedivano ad alcuni comproprietari di fruire della cosa comune in egual misura rispetto agli altri. Inoltre, le decisioni superavano le competenze dell’assemblea, che non poteva adottare tali provvedimenti a maggioranza.

Successivamente, l’assemblea ha approvato una nuova clausola del regolamento condominiale stabilendo che gli appellanti potevano utilizzare esclusivamente l’area destinata al carico e scarico, già segnalata con apposita indicazione, e solo per il tempo necessario a tali operazioni, limitando l’accesso a una sola auto alla volta. In questo caso, il Tribunale ha respinto l’impugnazione, ritenendo che la clausola garantisse l’uso comune dell’area parcheggio, definendo semplicemente criteri d’uso proporzionati alle necessità effettive dei condòmini. I proprietari delle cantine hanno presentato ricorso contro tale sentenza, sollevando contestazioni specifiche riguardo alle modalità d’uso dell’area esterna comune, destinata a verde pubblico con camminamenti pedonali e posti auto. La Corte di Appello è intervenuta per chiarire i punti in discussione.

 

Il criterio della ragionevolezza

La richiesta del proprietario di una cantina di usufruire del parcheggio condominiale con gli stessi diritti di un condomino proprietario di un appartamento, equiparando esigenze abitative a necessità logistiche, appariva eccessiva e poco sensata, poiché tendeva a sacrificare le prime e strumentalizzare le seconde.

D’altra parte, risultava più appropriato e razionale definire modalità separate di accesso e utilizzo dell’area condominiale in relazione alla natura dell’unità di riferimento. In tal modo, si potrebbe regolare diversamente l’accesso alle abitazioni rispetto a quello alle cantine, seguendo un criterio di ragionevolezza che prevede un trattamento differenziato per situazioni diverse e uniforme per circostanze analoghe.

 

Conclusioni

Per queste motivazioni, la Corte d’Appello di Genova ha respinto integralmente il ricorso, confermando la sentenza contestata. Ha giudicato ragionevole che i proprietari delle cantine, a differenza di quelli delle abitazioni, potessero utilizzare l’area esclusivamente «per il tempo strettamente necessario alle operazioni indicate e con una sola autovettura per volta».

Electricity

Fotovoltaico sul tetto: l’uso esclusivo non deve violare il pari uso

Il Tribunale di Rovereto, con la sentenza n. 193/2025, offre un intervento deciso su una tematica divenuta ricorrente nella giurisprudenza condominiale: la possibilità, per un singolo condomino, di installare impianti fotovoltaici sul tetto comune. La pronuncia si focalizza su un caso specifico riguardante un impianto posizionato unilateralmente, che occupava quasi tutta la superficie sfruttabile delle falde esposte al sole. Questa scelta ha avuto l’effetto pratico di impedire agli altri condomini la possibilità di realizzare sistemi simili.

 

Il principio di liceità e i limiti

La pronuncia prende le mosse da un principio fondamentale: l’installazione di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili è considerata legittima in linea generale, anche se realizzata su beni comuni, come stabilito dall’articolo 1122-bis, comma 2, del Codice civile. Tuttavia, l’uso della cosa comune da parte di un singolo condomino deve sempre rispettare i limiti previsti dall’articolo 1102 del Codice civile, il quale vieta sia di alterare la destinazione del bene sia di impedire agli altri condòmini di utilizzarlo in modo analogo. Nella fattispecie analizzata, il Tribunale ha evidenziato che la collocazione e le dimensioni dell’impianto fotovoltaico installato hanno comportato un’occupazione quasi esclusiva del tetto comune, precludendo agli altri partecipanti al condominio la possibilità di trarne un beneficio equivalente.

 

L’uso intensivo e totalizzante del bene comune

Il giudice ha stabilito che l’utilizzo effettuato fosse di natura particolarmente intensa e totalizzante, risultando così in contrasto con le norme che regolano l’uso della proprietà comune. Sebbene l’installazione fosse tecnicamente compatibile con la struttura dell’edificio, essa ha finito per generare una forma implicita di esclusione nei confronti degli altri comproprietari. Secondo il Tribunale, il fatto che il singolo condomino abbia agito per soddisfare un proprio fabbisogno energetico risulta irrilevante. L’aspetto centrale, infatti, è rappresentato dall’impatto che l’uso individuale ha sui diritti degli altri.

 

Il rimedio: riduzione e riequilibrio

Di particolare interesse è la soluzione adottata dal Tribunale, che ha scelto un approccio equilibrato. Piuttosto che ordinare la completa rimozione dell’impianto, ha recepito gli esiti della consulenza tecnica, stabilendo una riduzione del numero di pannelli installati. Questa misura è stata progettata per consentire ad almeno due altri condomini di poter installare impianti autonomi. In questo modo, si è ripristinato un bilanciamento nell’uso del bene comune, preservando al contempo al resistente la possibilità di usufruire del suo impianto, seppur in forma ridotta.

 

Il profilo processuale e il contraddittorio

La sentenza si sofferma su un importante aspetto di natura processuale. Il Tribunale stabilisce che non è necessario coinvolgere tutti i comproprietari nel contraddittorio, poiché l’azione proposta non incide sulla configurazione della cosa comune, ma si limita a richiedere la rimozione di un uso improprio. Di conseguenza, trattandosi di un’azione mirata a preservare l’equilibrio condominiale ai sensi dell’articolo 1102, è sufficiente chiamare in giudizio solo il condomino che ha realizzato l’intervento contestato.

 

Il rilievo della pronuncia

La recente decisione del Tribunale di Rovereto assume un’importanza significativa sul piano sistemico. In un contesto in cui l’installazione di impianti fotovoltaici sta guadagnando sempre più terreno, anche negli ambiti condominiali, essa fornisce un utile e chiaro principio orientativo: l’azione individuale è ritenuta legittima solo nella misura in cui non pregiudica il diritto collettivo di tutti i condomini a beneficiare della stessa risorsa. Sebbene l’autoproduzione di energia sia fortemente promossa dal legislatore, questa non può tradursi in un uso esclusivamente egoistico dei beni comuni. Il principio di solidarietà condominiale non è una mera teoria astratta, bensì un fondamentale criterio giuridico, formalmente sancito e tutelato dall’articolo 1102 del Codice civile.

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Come ripartire le spese e le responsabilità nel caso di rottura degli impianti di scarico

Con la sentenza numero 7717 del 25 agosto 2025, il Tribunale di Napoli ha nuovamente affrontato il delicato tema della corretta identificazione dei soggetti obbligati a partecipare alle spese per la riparazione degli impianti di scarico e, di conseguenza, a rispondere delle eventuali responsabilità risarcitorie derivanti dal danneggiamento della proprietà di altri condòmini.

Il principio stabilito dal giudice partenopeo, in linea con quello che si può considerare l’orientamento giurisprudenziale prevalente (pur esistendo alcune pronunce discordanti), è il seguente: nel contesto condominiale, le tubature orizzontali sono da ritenersi di proprietà del titolare dell’unità immobiliare dove esse si trovano, anche qualora il danno sia rilevato nella zona della braga di scarico, ossia il punto di connessione tra la tubazione orizzontale e quella verticale.

Per quanto riguarda invece le tubature verticali, ovvero quelle che si sviluppano in senso verticale dal basso verso l’alto e al di fuori degli appartamenti privati, come la colonna principale per il carico e lo scarico delle acque reflue, esse rientrano nella competenza del condominio.

 

Presupposti e conseguenze del principio

Questo argomento si sviluppa sulla base di un’analisi logica che parte dal caso specifico della rottura della braga e delle conseguenti infiltrazioni d’acqua nei piani sottostanti. La braga, infatti, ha la sola funzione di convogliare le acque nere verso la colonna di scarico condominiale, senza svolgere alcun ruolo funzionale diretto nei confronti del condominio. La sua utilità concreta si limita esclusivamente al proprietario dell’appartamento in cui è installata, in quanto garantisce il corretto smaltimento dei liquami prodotti all’interno di tale unità immobiliare.

Di conseguenza, il responsabile della gestione e manutenzione della braga sarà il privato proprietario dell’appartamento, salvo che quest’ultimo fornisca prova di un caso fortuito, ovvero un evento straordinario e imprevedibile capace di interrompere il nesso causale tra la propria condotta e il danno verificatosi. In assenza di tale dimostrazione, spetterà al proprietario farsi carico della riparazione del guasto e del risarcimento per i danni da infiltrazioni causati a terzi come conseguenza della rottura della tubazione orizzontale. Questo principio si applica in virtù del generale dovere di custodia che incombe su colui che ha un rapporto fattuale con il bene danneggiato, il quale è sotto la sua esclusiva responsabilità.

 

Il caso specifico

Nel caso esaminato dal Tribunale di Napoli, è stata accolta la richiesta avanzata da un condòmino, proprietario di due appartamenti nello stabile. A quest’ultimo è stato riconosciuto un risarcimento superiore ai tremila euro, in quanto aveva subito gravi allagamenti nella sua proprietà causati dalla rottura della braga di scarico dell’immobile situato al piano superiore. Tale danno lo aveva costretto a ridurre l’importo del canone di locazione al proprio inquilino.

Il convenuto, che si era costituito in giudizio chiamando in causa il condominio e sostenendo che la braga fosse di natura condominiale piuttosto che privata, si è visto respingere la propria linea difensiva sulla base di una consulenza tecnica d’ufficio sfavorevole. È stato condannato non solo a risarcire le minori entrate subite dal condomino ma anche a pagare le spese legali in favore del danneggiato e del terzo chiamato in causa.

 

Il dibattito giurisprudenziale

La sentenza si distingue principalmente per il suo contributo al riaccendersi di un dibattito mai del tutto sopito. Al centro di questa discussione si trovano due opposti orientamenti: da una parte, la visione maggioritaria che considera la braga di scarico un bene privato e, dall’altra, quella che ne sostiene la natura condominiale, valorizzando il ruolo della tubazione di raccordo in relazione alla struttura dell’edificio.

A sostegno del primo orientamento, sono emblematiche le pronunce della Corte di Cassazione 1027/2018 e 15302/2022, che stabiliscono quanto segue: la braga di raccordo, utilizzata esclusivamente per convogliare gli scarichi del singolo appartamento, è considerata di proprietà privata. Diversamente, la colonna verticale, destinata a raccogliere gli scarichi di tutti gli appartamenti, è qualificata come bene condominiale, poiché assolve una funzione comune. Di contro, il secondo orientamento trova fondamento in una pronuncia più datata, la sentenza 10584/2012 della Corte di Cassazione, che attribuisce natura condominiale alla braga. Secondo questa interpretazione, tale elemento non solo svolge una funzione essenziale rispetto alla colonna di scarico, ma ne costituisce anche parte integrante in virtù del suo collegamento strutturale al tratto verticale.

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Lavori edili nei condomini: quali sono gli orari e le regole da rispettare?

Effettuare lavori di ristrutturazione all’interno di un appartamento situato in condominio può generare inconvenienti per gli altri residenti. Per questo motivo, è fondamentale rispettare le fasce orarie dedicate al silenzio e programmare gli interventi nei giorni e negli orari consentiti. Al fine di gestire tali situazioni e prevenire possibili conflitti tra i condòmini, è consigliabile prendere in considerazione alcuni aspetti prima di dare avvio ai lavori.

 

Nessuna normativa esiste in materia

Per prima cosa, va precisato che non esiste una legge nazionale che definisca specifiche fasce orarie per i lavori di ristrutturazione in condominio. È quindi necessario consultare i regolamenti dei singoli Comuni, i quali stabiliscono le norme relative alle attività rumorose, siano esse edilizie o di altra natura.

Le normative possono differire significativamente da una città all’altra e, talvolta, persino da un quartiere all’altro. Pertanto, è fondamentale consultare i siti ufficiali dei Comuni per comprendere le modalità corrette da seguire. Per quanto riguarda i regolamenti condominiali, questi non possono prevedere orari o restrizioni che si discostino da ciò che è stato stabilito a livello comunale, poiché le disposizioni comunali prevalgono e i regolamenti condominiali devono generalmente adeguarsi. L’unica eccezione riguarda i regolamenti condominiali di natura contrattuale, redatti dal costruttore e firmati da tutti gli acquirenti al momento della compravendita, approvati in via unanime. Questi possono introdurre fasce orarie anche più rigide rispetto a quelle stabilite dai Comuni.

 

Le fasce di silenzio

Di norma, i lavori che generano rumore sono proibiti nelle prime ore del mattino, nel primo pomeriggio e di sera, corrispondenti alle cosiddette “fasce orarie di silenzio”, durante le quali la maggior parte dei condòmini si dedica al riposo o al proprio tempo libero.

Generalmente, i lavori edili in condominio possono essere effettuati dalle 8.00 del mattino fino alle 12.30/13.00 e dalle 15.00 alle 18.30/19.00 ad esclusione dei giorni festivi e delle domeniche. Nei giorni prefestivi, invece, possono vigere orari diversi da rispettare.

Tali regole e fasce orarie sono state istituite in modo da garantire un equilibrio tra la necessità di effettuare dei lavori di manutenzione e ristrutturazione degli appartamenti e il diritto dei condòmini a godere della giusta quiete nelle proprie abitazioni.

 

I regolamenti comunali

Alcuni Comuni classificano i lavori edili in base al livello di rumorosità, distinguendo tra quelli rumorosi e quelli meno invasivi. Questa suddivisione consente di stabilire nei regolamenti le fasce orarie durante le quali è consentito o vietato svolgere interventi particolarmente rumorosi all’interno di condomini o in appartamenti situati vicino a uffici o attività commerciali operative. Prima di avviare lavori in un appartamento condominiale, è sempre opportuno verificare il regolamento comunale e consultare l’impresa edile incaricata, che potrebbe già essere a conoscenza delle norme locali, specialmente se ha precedentemente operato nella stessa area.

 

Le comunicazioni all’amministratore e agli altri condòmini

Prima di avviare i lavori, è essenziale informare l’amministratore di condominio e affiggere in bacheca un cartello contenente informazioni importanti: la data di inizio e fine lavori (o il periodo previsto), l’appartamento interessato, gli orari di lavoro stabiliti dal Comune, il nome dell’impresa edile incaricata e i recapiti telefonici per eventuali comunicazioni. È consigliabile includere anche una breve frase di scuse per i disagi che potrebbero verificarsi. Questo avviso dovrebbe essere esposto circa una settimana prima dell’inizio dei lavori, in modo da garantire che tutti i condòmini siano informati con adeguato anticipo.

Nel caso in cui l’impresa edile non rispetti le fasce orarie stabilite, occorre segnalarlo all’amministratore di condominio. Quest’ultimo dovrà contattare il committente dei lavori per intervenire rapidamente e risolvere il problema.

 

Conclusioni

Se il committente non si dovesse attivare per risolvere il problema, generando ulteriori disagi ai condòmini, si potrebbero adottare interventi più determinanti, come contattare il comando di Polizia Municipale affinché effettui un sopralluogo, valuti la situazione e, se necessario, prenda i provvedimenti appropriati.

Qualora ci si trovasse davanti a una circostanza più critica, si potrebbe considerare l’azione legale come ultima risorsa, anche se è sempre consigliabile tentare prima una mediazione per risolvere la questione in modo amichevole.