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Il condomino persiste nella morosità? L’amministratore gli può sospendere la fornitura dei servizi

Il pagamento delle spese comuni rappresenta un aspetto cruciale della gestione condominiale e una morosità protratta, specie se addebitabile a più partecipanti, ne ostacola il costante esercizio

L’importanza del pagamento delle spese comuni nell’economia del condominio

Nel nostro ordinamento, tutti i condomini sono tenuti a contribuire proporzionalmente alle spese necessarie per la manutenzione e il godimento delle parti comuni dell’edificio, per i servizi forniti nell’interesse collettivo e per le innovazioni approvate dalla maggioranza. Questo contributo non rappresenta un rimborso per spese già sostenute, salvo nei casi di interventi urgenti con esborso immediato da parte dell’amministratore, ma è invece un anticipo che si basa sul bilancio preventivo annuale approvato dall’assemblea condominiale. La base di questa obbligazione si trova non solo nei diritti di proprietà, individuale o condivisa, che il condomino detiene sulle parti comuni, ma anche nei benefici che egli può ottenere da tali beni e servizi. Per questo motivo, la giurisprudenza definisce le spese condominiali come “obbligazioni propter rem”, in quanto derivano dalla contitolarità del diritto reale sui beni e servizi comuni, piuttosto che dalla stipula di un contratto (Cassazione, sentenza 18 aprile 2003, n. 6323). Questo concetto trova ulteriore conferma nel caso di vendita di un’unità immobiliare: l’obbligo di partecipazione alle spese si trasferisce automaticamente dal venditore all’acquirente. In tale contesto, si parla di “ambulatorietà” dell’obbligazione (Cassazione, sentenza 12 novembre 2024, n. 29199). Lo stesso principio si applica all’usufruttuario, il cui ruolo è stato chiarito dalla legge 220/2012, che lo include esplicitamente nel quadro normativo. Questo sistema normativo sottolinea l’importanza di un flusso continuo e regolare di contributi alle finanze condominiali. L’assenza di liquidità, infatti, comprometterebbe gravemente la capacità del condominio di adempiere agli obblighi nei confronti dei terzi e di gestire efficacemente le risorse comuni. A tale proposito, emerge la rilevanza del ruolo dell’amministratore nel recupero dei crediti condominiali, sia quelli previsti dal bilancio preventivo annuale sia quelli derivanti dai conguagli di gestione. L’amministratore è investito di specifici compiti volti a prevenire situazioni di insolvenza nelle casse condominiali, ricorrendo a strumenti che riducano il rischio di sofferenze finanziarie. Queste criticità, infatti, non derivano mai da eventi imprevedibili ma dall’assenza del necessario controllo e dalla mancata esazione delle somme dovute.

 

L’amministratore deve riscuotere i contributi anche per via ingiuntiva

Uno dei principali doveri dell’amministratore condominiale deriva dalla combinazione degli articoli 1130, n. 3, del Codice Civile e 63 delle disposizioni attuative dello stesso codice. Questi definiscono il ruolo dell’amministratore come una sorta di “esattore”, incaricato di riscuotere i contributi stanziati dall’assemblea condominiale per la gestione ordinaria e operativa delle parti comuni dell’edificio. A ciò si aggiungono i pagamenti relativi agli interventi straordinari, che sono vincolati esclusivamente alla decisione discrezionale dell’assemblea, come previsto dall’articolo 1135, comma 2, del Codice Civile. Nel caso in cui le rate ordinarie siano scadute, oppure dopo l’emissione dei bollettini di pagamento per spese non incluse nella normale gestione condominiale, l’amministratore può avviare la procedura di sollecito in caso di mancato pagamento spontaneo. Questo processo include un primo avviso, seguito da una comunicazione formale tramite legale e, infine, il ricorso al procedimento giudiziario per ottenere un decreto ingiuntivo. È stato considerato legittimo agire in via ingiuntiva anche senza la necessità di inviare preventivamente un atto formale di messa in mora, dato che i condomini sono obbligati a versare gli oneri condominiali. Questa interpretazione è supportata da parte della giurisprudenza di merito (Tribunale di Roma, sentenza del 5 febbraio 2021, n. 2053), secondo cui un decreto ingiuntivo non è affetto da improcedibilità per il solo fatto di non essere stato preceduto da una esplicita richiesta di pagamento. Il legislatore non impone all’amministratore alcun atto formale in tal senso e, nell’ambito del suo mandato, egli ha il dovere di agire per il recupero dei crediti senza necessità di ottenere una delibera assembleare. Tuttavia, un sollecito informale si rivela spesso una scelta opportuna per chiarire eventuali disguidi nelle comunicazioni o semplici dimenticanze da parte del condomino, sensibilizzandolo così al rispetto dei propri obblighi. La disciplina relativa alla riscossione delle morosità è regolata, oltre che dall’articolo 63 delle disposizioni attuative del Codice Civile, anche dall’articolo 1129, comma 9, dello stesso codice. Quest’ultimo rafforza il compito dell’amministratore nella riscossione coattiva dei crediti entro sei mesi dalla chiusura dell’esercizio contabile in cui il credito risulta esigibile, stabilendo anche che solo l’assemblea può liberare l’amministratore dall’obbligo di procedere. Nonostante il limite apparente nel riferimento temporale imposto dalla norma (ossia la chiusura dell’esercizio contabile), è possibile ottenere un decreto ingiuntivo basato sul bilancio preventivo. Tuttavia, la mancata allegazione dello stato di ripartizione delle spese impedisce la concessione della provvisoria esecuzione del provvedimento monitorio. Infatti, la giurisprudenza ha stabilito che l’articolo 63, comma 1, delle disposizioni attuative del Codice Civile possiede un valore probatorio particolare, equivalente a quello attribuito ai documenti elencati dall’articolo 642, comma 1, del Codice di Procedura Civile (Corte di Cassazione, ordinanza del 24 settembre 2020, n. 20003).

Morosità protratta per un semestre: elementi che definiscono la sospensione

Per facilitare il recupero dei crediti condominiali, il legislatore ha ideato un sistema volto a spingere il debitore verso un rapido adempimento, evitando così conseguenze immediate e significative sulla sua vita quotidiana. A tale fine, l’articolo 63, comma 3, delle disposizioni di attuazione del codice civile prevede la possibilità di sospendere l’accesso ai servizi comuni suscettibili di godimento separato per i condomini morosi da oltre sei mesi. È rilevante osservare che la riforma del 2012 ha attribuito piena autonomia all’amministratore in questa materia, eliminando il vincolo imposto dalla precedente normativa, che richiedeva un’autorizzazione specifica nel regolamento condominiale. Al riguardo, sono necessarie alcune precisazioni sul contenuto della disposizione:

– La sospensione del servizio comune e l’attivazione del decreto ingiuntivo sono misure distinte e autonome, pertanto non è presente una gerarchia tra le due. Infatti, la sospensione è a discrezione dell’amministratore, mentre il decreto ingiuntivo rappresenta un atto obbligatorio, pur senza esplicite sanzioni in caso di mancata applicazione.

– La morosità deve essere continuativa, ovvero mantenersi senza interruzioni per un periodo minimo di sei mesi.

– L’utilizzo del termine “mora” potrebbe implicare la necessità di un atto formale che evidenzi i debiti scaduti. In questo scenario, l’amministratore dovrebbe inviare al condomino un avviso tramite raccomandata con ricevuta di ritorno o PEC, specificando che, se entro una data precisa il debito non verrà saldato, sarà sospesa la fruizione di uno specifico servizio. Tale comunicazione rappresenta una misura invasiva che richiederebbe un’attenta formalizzazione preliminare.

– Il servizio oggetto della sospensione deve essere fruibile in modo autonomo, senza influenzare l’utilizzo degli altri condomini.

– L’assenza nella norma di riferimenti a ulteriori autorizzazioni lascia intendere che non sia necessaria una preventiva delibera assembleare. Si tratta infatti di una prerogativa esclusiva dell’amministratore, non subordinata al ricorso preliminare all’autorità giudiziaria, salvo nei casi in cui la sospensione richieda l’accesso alla proprietà del condomino debitore. Questa disciplina evidenzia dunque un equilibrio tra le esigenze del condominio e la responsabilità dell’amministratore nel gestire i conflitti derivanti dalla morosità.

L’orientamento della giurisprudenza nella soluzione delle varie problematiche

Il vasto panorama giurisprudenziale, principalmente riferito al merito, riflette la moltitudine di questioni sorte in relazione all’utilizzo di uno strumento evidentemente coercitivo, seppur privo di carattere sanzionatorio. Innanzitutto, va sottolineato che la sospensione del servizio ha una durata temporanea e deve terminare una volta realizzato l’adempimento richiesto. Quanto all’applicazione della misura, non è stata ritenuta necessaria una corrispondenza diretta tra il debito accumulato e il tipo di servizio sospeso. Tale correlazione risulta esclusa sia dal dato testuale della disposizione — che menziona un mancato pagamento dei “contributi” in maniera oggettivamente non determinata — sia dalla genericità della sospensione relativa ai servizi comuni. A tal proposito, si è espresso il Tribunale di Ferrara (sentenza n. 444 del 7 maggio 2025, in un caso riguardante la sospensione del riscaldamento geotermico per morosità condominiali complessive), affermando che la natura del bene oggetto del servizio non incide sulla legittimità della sospensione. Tale interpretazione è conforme al dettato letterale dell’articolo 63 delle disposizioni di attuazione del codice civile. Già nella fase iniziale della riforma, era stato rilevato che la norma non indicava alcun rapporto di corrispettività tra la prestazione non adempiuta e la sospensione del servizio (Tribunale di Brescia, ordinanza 13 febbraio 2014, n. 427). Un altro punto interessante riguarda il requisito di proporzionalità tra l’inadempimento e il provvedimento adottato nei confronti del condomino tramite l’autotutela. In termini pratici, si tratta di valutare se una morosità relativa a un semestre, magari economicamente non rilevante, possa giustificare la sospensione dell’erogazione di un servizio comune. Su questo tema, il Tribunale di Reggio Emilia (sentenza 17 ottobre 2024, n. 1007) ha chiarito che l’interesse economico condominiale non può prevalere sui diritti fondamentali dei singoli individui, richiedendo un bilanciamento con la tutela del diritto alla salute garantito dall’articolo 32 della Costituzione. Questa valutazione spetta alla discrezionalità del giudice, il quale deve considerare che la sospensione del servizio mira a proteggere un diritto puramente economico del condominio, recuperabile in ogni caso. Da tale questione emerge un ulteriore tema rilevante sul quale la giurisprudenza non ha sempre raggiunto un orientamento uniforme: la distinzione tra servizi essenziali e non essenziali. Sebbene manchi una specifica regolamentazione normativa in proposito, tale distinzione pone il problema di stabilire se sia lecito sospendere servizi essenziali quali riscaldamento, fornitura di acqua calda e fredda o antenna centralizzata. Per questi beni, utilizzabili separatamente, la sospensione può avvenire secondo modalità diverse. Gran parte della giurisprudenza si è pronunciata contro l’intangibilità delle prestazioni (ad esempio Tribunale di Bologna, ordinanza 3 aprile 2018; Tribunale di Roma, ordinanza 27 giugno 2014 e altre), qualora persista una morosità condominiale. Tuttavia, per quanto riguarda l’approvvigionamento idrico, il principale limite da considerare sotto un profilo pubblicistico è contenuto nella normativa che tutela gli utenti morosi in comprovata difficoltà economico-sociale, garantendo loro un quantitativo minimo di erogazione (D.P.D.M. 29 agosto 2016 in attuazione della Legge di Stabilità 2016). Per altri servizi essenziali non esistono disposizioni simili sul piano normativo settoriale. Ad esempio, nel caso del riscaldamento, qualora venga interrotto il flusso diretto di calore per un condomino moroso, egli potrebbe comunque ricorrere a soluzioni autonome o alternative per soddisfare le proprie necessità termiche.

Conclusioni

Dall’analisi fino ad ora condotta emerge che lo strumento disciplinato dall’art. 63 disp. att. cod. civ., se applicato nel rispetto dei presupposti legali e operativi, può rappresentare un efficace deterrente per scoraggiare i condomini dall’adottare comportamenti di totale indifferenza verso la comunità. Pur non esistendo una correlazione diretta tra l’obbligo di agire legalmente e il potere di autotutela conferito dal legislatore, il ricorso a questa facoltà concessa all’amministratore potrebbe avere un effetto dissuasivo immediato, poiché implica una restrizione diretta nell’uso di un servizio comune. Questo aspetto appare particolarmente rilevante alla luce della crescente complessità e lentezza dei procedimenti giudiziari necessari per ottenere il rispetto degli obblighi da parte del condomino.

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Infiltrazioni da parti comuni e mancato godimento, maxi risarcimento in via equitativa

Valutato quasi 100mila euro il danno da perdita di chances anche senza un contratto di locazione effettivamente stipulato

 

Il mancato godimento dell’immobile come perdita di chances

Secondo il parere del giudice, quando un locale non può essere utilizzato liberamente dal proprietario in conformità alla sua destinazione originaria a causa di infiltrazioni provenienti anche da una parte comune (come nel caso di un piazzale adibito a parcheggio e utilizzato come copertura per gli immobili sottostanti), il risarcimento per il mancato utilizzo, assimilabile al danno da perdita di opportunità, deve essere determinato equitativamente. A tale scopo, si può prendere come riferimento il canone di locazione di mercato per immobili dello stesso tipo.

 

L’onere della prova per il proprietario

È necessario che l’attore dimostri, anche in presenza di contestazioni specifiche, la concreta possibilità di godimento persa e la destinazione effettiva dell’immobile, in modo da individuare il canone di riferimento. La destinazione d’uso commerciale, se supportata da prove testimoniali, permette di quantificare il danno anche in assenza di un contratto di locazione formalmente concluso. Il calcolo del canone mensile (non percepito o potenzialmente perso) deve partire dal momento in cui è stata accertata l’insalubrità o l’inutilizzabilità dei locali e proseguire fino al termine della condotta antigiuridica responsabile della situazione.

 

L’insalubrità dei locali

Nel caso in esame, una società aveva acquistato alcuni immobili situati all’interno di un complesso residenziale, con l’intento specifico di destinare parte di essi, in particolare quelli ubicati al piano seminterrato, a showroom per la propria clientela. Su questi immobili si trovava una corte in parte condominiale e in parte di proprietà di terzi, utilizzata come area per il parcheggio dei veicoli. Fin dall’inizio, tuttavia, a causa delle significative infiltrazioni di acqua piovana provenienti dal piazzale sovrastante, si erano sviluppate muffe all’interno dei locali. Questo non solo li aveva resi insalubri e inabitabili, ma aveva anche costretto la società proprietaria ad acquistare altri spazi per l’esposizione delle merci, poiché i locali erano ormai divenuti inadeguati per la destinazione originaria. Di conseguenza, avendo subito una riduzione nel pieno godimento della propria proprietà, la società aveva deciso di agire legalmente nei confronti del condominio, tra gli altri soggetti coinvolti, chiedendo che quest’ultimo fosse condannato al risarcimento dei danni, per quanto di sua responsabilità. La domanda si basava sull’assunzione del condominio come custode dell’area cortilizia ai sensi dell’articolo 2051 del Codice civile.

 

La decisione del Tribunale

Il giudice, attraverso la sentenza numero 1734/2025, ha accolto le argomentazioni avanzate dall’attrice nei confronti del condominio convenuto. Quest’ultimo, pur essendosi costituito in giudizio chiedendo il rigetto della domanda e sollecitando la propria compagnia assicurativa a garantire la sua posizione, è stato ritenuto responsabile per i danni provocati. La decisione è stata presa sulla base delle prove testimoniali, le quali hanno confermato che gli spazi coinvolti, se fossero stati agibili, sarebbero stati destinati a un utilizzo funzionale come area di accoglienza clienti e per l’esposizione di merce. Considerando la responsabilità del condominio nella gestione dell’area soprastante ai locali danneggiati dalle infiltrazioni, il giudice ha stabilito che quest’ultimo debba risarcire l’attrice per il mancato utilizzo degli stessi.

 

La valutazione equitativa

Per quanto riguarda la determinazione del risarcimento, in mancanza di documentazione che potesse servire da parametro per quantificare il danno già comprovato tramite testimonianze, il Tribunale ha deciso di procedere con una valutazione equitativa. A tal fine, ha utilizzato come riferimento il canone locativo di mercato degli immobili con analoga destinazione commerciale nella medesima zona, stabilito in cinquecento euro mensili secondo quanto indicato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza numero 33645/2022). Il periodo iniziale da cui calcolare l’importo dovuto è stato fissato al momento in cui il consulente tecnico d’ufficio, nominato durante un precedente accertamento tecnico preventivo tra le stesse parti, ha rilevato il primo caso di infiltrazione, avvenuto a marzo 2018. Il termine finale per tale computo, invece, è stato individuato nel primo giorno del mese precedente (agosto 2025) rispetto alla data in cui le parti hanno presentato le conclusioni e la causa è stata trattenuta a sentenza.

 

L’insussistenza della prescrizione

Alla luce dell’eccezione di prescrizione sollevata dalla compagnia assicurativa del condominio, il Tribunale ha chiarito che, nel caso di infiltrazioni ripetute, i termini di prescrizione iniziano nuovamente a decorrere con ogni singolo evento infiltrativo. Pertanto, come avvenuto nella situazione in esame, ogni nuovo episodio, incluso quello riscontrato nel 2022, implica la reiterazione di una condotta illecita. Di conseguenza, il diritto al risarcimento non può essere considerato prescritto. La domanda è stata quindi accolta, con la conseguente condanna del condominio al risarcimento, coperto dall’assicurazione, di 94 mila euro a favore della parte danneggiata. Di tale importo, ben 45 mila euro sono stati riconosciuti come risarcimento per il mancato godimento dei seminterrati coinvolti nelle infiltrazioni.

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Manutenzione del giardino condominiale: tipologie di interventi e ripartizione spese

Lo spazio verde contribuisce a valorizzare l’estetica del condominio, donando benessere a coloro che lo abitano

 

Il giardino condominiale rappresenta uno spazio verde condiviso da tutti i condòmini, il che lo rende accessibile e fruibile da ciascuno, purché vengano osservate determinate regole di utilizzo e manutenzione. Questo spazio contribuisce non solo a migliorare l’estetica e l’atmosfera del condominio, ma offre anche ai residenti l’opportunità di godere di un luogo che favorisce il relax e attimi di serenità.

 

La manutenzione ordinaria

Il giardino condominiale, come tutte le parti comuni dell’edificio, necessita di una manutenzione regolare. Questo non solo per garantire il decoro complessivo della proprietà, ma anche per permettere ai condòmini di usufruirne in maniera ottimale.

Da un punto di vista normativo, l’articolo 1130 del Codice Civile assegna all’amministratore di condominio il compito di predisporre gli interventi di manutenzione ordinaria. Tuttavia, è l’assemblea condominiale a decidere a chi affidare concretamente tali lavori, spesso nominando un giardiniere specializzato per occuparsene.

Tra le attività di manutenzione ordinaria si includono operazioni come il taglio dell’erba, la cura delle piante, la potatura delle siepi, la manutenzione dei vialetti, il controllo e la gestione del sistema di irrigazione, la pulizia delle aiuole e degli alberi, la rimozione delle foglie cadute, oltre alla pulizia delle canalette di scolo.

In linea generale, salvo limitazioni espressamente previste dal regolamento condominiale, ogni condomino può coltivare piante e fiori nel giardino condominiale. Questo è possibile grazie all’articolo 1102 del Codice Civile, che consente a ciascun partecipante di utilizzare le parti comuni a patto che non ne modifichi la destinazione d’uso e che non limiti il diritto degli altri condòmini a farne lo stesso utilizzo. Va comunque precisato che eventuali danneggiamenti causati da tali interventi saranno a carico del condomino responsabile, che dovrà provvedere alle spese necessarie per ripristinare lo stato originario.

Infine, prima di intraprendere qualsiasi iniziativa personale nel giardino comune, è sempre consigliabile informare l’assemblea di condominio per evitare possibili discussioni o conflitti.

E quella straordinaria

Talvolta il giardino condominiale può richiedere interventi di manutenzione straordinaria, come la piantumazione di specie nuove, la realizzazione di recinzioni o vialetti, l’installazione di un impianto di irrigazione che non era originariamente previsto o la conversione del giardino in un’area parcheggio. Per avviare tali interventi, è indispensabile ottenere l’approvazione da parte dell’assemblea condominiale. In particolare, occorre il consenso favorevole di almeno 4/5 dei membri presenti all’assemblea, oltre a 4/5 del valore espresso in millesimi del condominio. La scelta della ditta o del professionista incaricato di eseguire i lavori spetterà comunque all’assemblea.

 

Il riparto delle spese

Le spese relative agli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria vengono generalmente suddivise tra tutti i condòmini in base ai millesimi di proprietà, salvo diverse disposizioni o eccezioni previste dal regolamento condominiale.

In situazioni che richiedono interventi urgenti, come ad esempio la caduta di un albero a seguito di una calamità naturale, l’amministratore di condominio è tenuto ad agire prontamente per risolvere il problema e garantire la sicurezza dei condòmini. Inoltre, dovrà informare al più presto tutti i condomini dell’accaduto, fornendo un resoconto dettagliato delle azioni intraprese.

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Illecite microcamere in appartamento se non segnalate

Un impianto occulto, anche in condominio su aree comuni, lede la dignità, la riservatezza e la libertà degli inquilini e dei loro ospiti, con possibili profili di responsabilità civile, amministrativa e penale

 

Il recente caso di cronaca accaduto all’Aquila, dove sono state scoperte microcamere nascoste all’interno di appartamenti affittati a studenti, ha riacceso il dibattito sulla problematica dell’installazione di dispositivi di videosorveglianza in contesti condominiali. L’indagine è partita grazie a uno studente che, notando un riflesso insolito nello specchio del bagno, ha sollevato sospetti su possibili interferenze illecite nella sfera privata. Le telecamere erano state collocate in appartamenti riconducibili a un unico individuo, lo stesso che le aveva posizionate anche nel garage, superando ogni limite imposto dai principi di finalità, pertinenza e minimizzazione previsti dal Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR).

 

Le regole in condominio

È fondamentale porre l’attenzione sulle distinzioni da considerare in merito ai diversi casi che possono interessare i condomìni. Nel caso in cui un sistema di videosorveglianza inquadri le aree comuni del condominio, il responsabile del trattamento dei dati è rappresentato dal condominio stesso, attraverso la figura dell’amministratore. Questa interpretazione trova conferma anche nelle Linee guida del Garante 2025, attualmente in fase di consultazione. Secondo tali linee guida, il condominio è tenuto ad assumersi pienamente la responsabilità nella gestione delle immagini, garantendo che il trattamento avvenga nel rispetto dei principi di liceità, necessità, proporzionalità e trasparenza.

L’installazione di telecamere sulle aree comuni di un condominio richiede necessariamente una delibera assembleare adottata secondo quanto previsto dall’articolo 1136, comma 2, del Codice Civile. Si tratta infatti di un intervento che influisce sia sulla gestione dei beni comuni sia sul trattamento dei dati personali dei soggetti interessati. Nell’assemblea devono essere stabilite le finalità del trattamento, l’angolo di ripresa, i tempi di conservazione delle immagini, le modalità di accesso e le misure di protezione da adottare. Una volta approvata la decisione, è compito del condominio predisporre un’informativa chiara, effettuare la valutazione del legittimo interesse, aggiornare il registro dei trattamenti e, nel caso in cui le telecamere riprendano aree soggette a transito continuo (come l’ingresso principale del condominio), si dovrà anche procedere con la redazione di una valutazione d’impatto sulla privacy (DPIA).

 

L’impianto interno all’abitazione

La situazione cambia quando un unico proprietario decide di installare telecamere all’interno della propria unità abitativa: è possibile farlo esclusivamente a condizione che l’impianto non riprenda aree comuni né individui terzi. Le riprese clandestine, come quelle emerse nel caso aquilano, sono invece considerevolmente illecite, sia dal punto di vista della privacy che da quello penale, configurando la fattispecie prevista dall’articolo 615-bis del Codice penale riguardante le interferenze illecite nella vita privata. Inoltre, qualora una telecamera privata catturi anche accidentalmente immagini di zone comuni, il proprietario assume il ruolo di responsabile del trattamento dei dati e sarà soggetto agli stessi obblighi che si applicano al condominio, come precedentemente illustrato.

Non è consentita la registrazione delle aree comuni senza l’approvazione dell’assemblea, né l’uso di microtelecamere nascoste all’interno di un appartamento in affitto per riprendere soggetti terzi senza il loro esplicito consenso. L’amministratore non può considerarsi estraneo al sistema di videosorveglianza se questo riguarda le parti comuni: è tenuto a rispettare gli obblighi previsti dal GDPR. Ciò include informare i soggetti interessati, adottare adeguate misure di sicurezza, prevenire accessi non autorizzati e, se necessario, segnalare eventuali irregolarità all’Autorità garante.

 

La gestione dell’anagrafe

Un elemento fondamentale riguarda l’installazione di telecamere non autorizzate nelle aree comuni, strettamente legata alla gestione dell’anagrafe condominiale. L’amministratore, in qualità di responsabile del trattamento dei dati, è incaricato della raccolta e conservazione delle informazioni relative agli occupanti degli immobili, che includono proprietari e locatari. Qualora le telecamere registrino immagini di terzi, come ospiti di brevi soggiorni, affittuari temporanei o visitatori, è necessario che l’amministratore verifichi l’esistenza di una base giuridica valida per il trattamento, fornisca un’informativa adeguata e garantisca che la sorveglianza sia proporzionata alle esigenze giustificate. Le nuove Linee guida sul trattamento dei dati personali in ambito condominiale, pubblicate per consultazione dal Garante per la protezione dei dati personali il 10 aprile 2025, sottolineano che non è consentito raccogliere o conservare dati relativi a soggetti occasionali o ospiti temporanei, salvo che ne sussistano motivazioni valide. Inoltre, tali documenti ribadiscono che la videosorveglianza delle aree comuni deve essere circoscritta alle necessità direttamente connesse alla gestione del condominio.

Nell’analisi della legittimità dell’impianto installato dal condominio, risulta fondamentale valutare l’equilibrio tra l’interesse legittimo alla sicurezza e il rispetto dei diritti e delle libertà delle persone coinvolte. Le Linee guida 2025 sottolineano l’importanza di limitare le riprese delle telecamere alle sole aree strettamente necessarie, oltre a prevedere una conservazione delle immagini circoscritta a un periodo di tempo ragionevole. In numerosi contesti, soprattutto quando sussiste un elevato rischio per i diritti degli interessati, risulta indispensabile effettuare la Dpia ai sensi dell’articolo 35 del Gdpr.

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L’amministratore che non paga la rata dell’assicurazione deve risarcire il danno

La gestione assicurativa costituisce parte integrante della diligenza professionale richiesta ex articolo 1710 Codice civile

 

La Corte d’appello di Ancona, con la sentenza 1001/2025, ha affrontato una delle tematiche più complesse legate alla responsabilità professionale dell’amministratore condominiale: la gestione delle coperture assicurative. Nello specifico, la Corte ha confermato la condanna dell’amministratore per grave inadempienza, dovuta al mancato pagamento del premio assicurativo della polizza per la responsabilità civile del condominio, che si è rivelata inefficace al momento del sinistro.

 

Il caso

Una persona aveva riportato lesioni a seguito di una caduta lungo le scale di un condominio, incidente riconducibile a presunte carenze strutturali dell’edificio. Sebbene una polizza di responsabilità civile avrebbe potuto coprire il danno subito, il contratto assicurativo era scaduto ed era rimasto non rinnovato per circa un anno. Di conseguenza, il condominio, condannato in primo grado al risarcimento, aveva agito in rivalsa contro l’amministratore uscente, attribuendogli la responsabilità per l’omissione nel pagamento del premio assicurativo e la conseguente mancanza di tutela.

La Corte d’Appello, confermando la sentenza di primo grado, ha ribadito la responsabilità dell’amministratore uscente, sottolineando il suo obbligo di intervenire tempestivamente per evitare l’interruzione della copertura assicurativa.

 

La diligenza dovuta e l’inadempimento colpevole

Secondo quanto stabilito dai giudici, l’amministratore ha il dovere non solo di gestire correttamente le decisioni già deliberate, ma anche di attuare tempestivamente tutte le misure necessarie per garantire la conservazione e la tutela del patrimonio comune. Questo include il mantenimento delle coperture assicurative già in vigore. In tale contesto, non sono considerati motivi validi né la mancanza di fondi disponibili né eventuali situazioni di morosità da parte dei condòmini. In caso di difficoltà economiche, l’amministratore ha l’obbligo di sollecitare formalmente l’assemblea, convocarla d’urgenza o, quanto meno, segnalare con precisione le conseguenze derivanti dal mancato pagamento.

Nel caso specifico, non è stata presentata alcuna evidenza di tali interventi: non risultano notifiche formali, richieste urgenti di deliberazione o comunicazioni sui rischi potenziali. Si tratta quindi di un’omissione grave, priva di giustificazioni e capace di arrecare un danno concreto alla comunità condominiale.

 

La responsabilità per gestione negligente

La Corte d’appello ha inquadrato la questione nell’ambito della responsabilità contrattuale derivante dal mandato, richiamando la giurisprudenza che stabilisce come l’amministratore sia responsabile per inadempimento ogni volta che un comportamento omissivo provoca un danno al condominio, anche in via indiretta. Il mancato versamento del premio assicurativo relativo a una polizza attiva, che comporta l’assenza di copertura in caso di sinistro, rappresenta una violazione degli obblighi fiduciari dell’amministratore e giustifica un’azione risarcitoria da parte del condominio.

 

Conclusione

La sentenza 1001/2025 sottolinea con decisione che la protezione assicurativa del condominio rappresenta un elemento essenziale di una gestione adeguata, attribuendo all’amministratore la responsabilità di assicurarne la continuità. Qualsiasi errore, omissione o, ancor peggio, sottovalutazione di tale obbligo non possono essere sanati retroattivamente. Nel caso in cui si verifichi un sinistro e la copertura risulti assente, sarà l’amministratore a doverne rispondere.

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Caduta nell’androne: niente risarcimento se c’è negligente comportamento della vittima

Questa eventualità esclude la responsabilità del condominio custode

 

Le cadute all’interno degli androni condominiali rappresentano una causa di contenzioso ricorrente, spesso al centro di dispute che giungono nelle aule giudiziarie e davanti alla Corte di Cassazione. In questo contesto, risulta rilevante l’ordinanza emessa dalla sezione III civile della Cassazione, numero 30171, depositata il 15 novembre 2025.

 

I fatti

Una donna anziana, residente in un condominio, si era rivolta ai giudici di legittimità dopo essere rimasta vittima di una caduta nell’androne dello stabile, presumibilmente causata dalla presenza di acqua sul pavimento. Tuttavia, sia in primo che in secondo grado, non era stata rilevata alcuna responsabilità da parte del condominio, che di conseguenza non era stato condannato a corrispondere alcun risarcimento per le lesioni subite dalla donna.

Le lesioni, secondo i giudici di merito, non potevano essere attribuite in alcun modo al condominio e, di conseguenza, non implicavano una responsabilità da custodia ai sensi dell’articolo 2051 del Codice civile. Era invece necessario ricondurle esclusivamente al comportamento imprudente della stessa persona danneggiata, escludendo la presenza di altri fattori causali.

 

La decisione

La condomina si è vista confermare in Cassazione le decisioni di merito e respingere definitivamente la richiesta di risarcimento. È stato chiarito che, quando viene accertata l’esistenza del nesso di causalità tra la cosa custodita e l’evento, la responsabilità del custode può essere esclusa attraverso la prova del caso fortuito, che può derivare da un fatto naturale, da un’azione di un terzo o dal comportamento della stessa vittima.

In questo caso specifico, per determinare se vi siano elementi che escludano totalmente o parzialmente la responsabilità del custode, è necessario applicare i seguenti criteri:

  1. a) analizzare in quale misura il soggetto danneggiato avrebbe potuto prevedere ed evitare il danno;
  2. b) verificare se il danneggiato abbia rispettato il principio del generale dovere di ragionevole cautela;
  3. c) escludere completamente la responsabilità del custode se la condotta del danneggiato rappresenta un comportamento irragionevole o inaccettabile, valutato secondo criteri probabilistici di regolarità causale;
  4. d) considerare non rilevante ai fini del giudizio il fatto che la condotta della vittima fosse, in senso astratto, prevedibile.
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Il riscaldamento in condominio e le spese da ripartire

I metodi per suddividere i costi variano, ma la quota complessiva sui consumi volontari non può risultare inferiore al 50% della cifra totale

 

Dal 29 luglio 2020, con l’entrata in vigore del decreto legislativo 73/2020, l’applicazione della norma tecnica Uni 10200 per la suddivisione delle spese di riscaldamento nei condomini è diventata facoltativa, non più obbligatoria. Questa norma stabiliva i consumi involontari, definiti come “quota fissa”, sulla base dei cosiddetti “millesimi di riscaldamento”. I millesimi consideravano il fabbisogno energetico delle singole unità immobiliari, ovvero la quantità di energia necessaria affinché ogni appartamento mantenesse una temperatura interna costante (20 gradi centigradi, con una tolleranza di +2 gradi) durante il periodo di funzionamento dell’impianto.

 

La Guida Enea

La Guida Enea pubblicata nell’ottobre 2021 sulla ripartizione delle spese per i consumi di energia termica nei condomìni evidenzia che, confrontando i vari criteri di suddivisione dei costi relativi ai consumi involontari e alle spese gestionali totali, non esiste un metodo universalmente più efficace o preferibile.

Ogni criterio presenta specifici vantaggi che lo rendono più adatto in relazione alle caratteristiche degli edifici e al contesto in cui viene applicato. Il metodo basato sui millesimi di superficie risulta essere il più semplice e immediato da comprendere. Il metodo basato sui millesimi di potenza installata può rivelarsi particolarmente utile in presenza di appartamenti dotati di corpi scaldanti con potenze molto differenti a parità di superficie. Infine, il criterio dei millesimi di fabbisogno, grazie al suo maggiore livello di dettaglio, si presta meglio nei casi in cui gli appartamenti abbiano fabbisogni energetici significativamente diversi a parità di dimensione.

Tutti questi metodi possono essere adottati per la ripartizione delle spese relative ai consumi involontari e alle spese gestionali totali. Tuttavia, è l’assemblea condominiale, tramite voto a maggioranza, a decidere quale criterio applicare. Diversamente, le spese legate ai consumi volontari devono sempre essere distribuite in base al consumo effettivo, rilevabile tramite sottocontatori o ripartitori.

 

La quota totale

La normativa stabilisce che la quota complessiva riferita ai consumi volontari non può, per legge, scendere al di sotto del 50% delle spese totali. Questo principio è ribadito anche dall’articolo 9, comma 5, lettera d) del decreto legislativo 102/2014, che prevede la suddivisione dell’importo totale delle spese per il riscaldamento e l’acqua calda sanitaria tra gli utenti finali. In particolare, almeno il 50% di tali costi deve essere attribuito ai prelievi volontari di energia termica, rilevati attraverso sottocontatori o ripartitori. Questi strumenti registrano l’effettivo utilizzo del riscaldamento da parte di ciascun condomino tramite le regolazioni delle valvole termostatiche. Per quanto riguarda i consumi involontari, perlopiù derivanti dalle dispersioni di calore dell’impianto, l’assemblea condominiale può optare per una suddivisione basata su criteri come i millesimi di proprietà o “di riscaldamento”, i metri quadri o cubi utili, oppure le potenze termiche installate. In ogni caso, la quota dei consumi involontari non può mai superare il 50% del totale complessivo.

 

Chi abbandona il centralizzato

Secondo quanto previsto dall’articolo 1118, ultimo comma, del Codice civile, i condòmini che hanno deciso di disconnettersi dall’impianto centralizzato sono comunque tenuti a contribuire alle spese relative alla manutenzione straordinaria della caldaia comune, alla sua conservazione e all’adeguamento normativo. Nel caso di sostituzione della centrale termica, i condòmini distaccati, in quanto comproprietari dell’impianto sostituito, potrebbero essere chiamati a sostenere una parte delle spese. Inoltre, spetterà loro il pagamento pro quota degli oneri legati ai consumi involontari.

Informazioni utili

Il condomino non può negare l’accesso per l’esecuzione di lavori condominiali

Il diritto di proprietà non può paralizzare l’interesse collettivo e le opere necessarie

 

Il singolo condomino ha l’obbligo di permettere l’accesso alla propria abitazione qualora sia necessario per svolgere interventi riguardanti le parti comuni, purché tali lavori siano stati regolarmente approvati dall’assemblea condominiale. Un rifiuto o un comportamento di inadempienza ingiustificata autorizza il condominio a rivolgersi al giudice per ottenere un provvedimento che consenta l’ingresso forzato, anche con l’ausilio dell’Ufficiale giudiziario e delle forze dell’ordine. Questo principio è stato ribadito dal Tribunale di Lodi nella sentenza n. 472 del 23 settembre 2025.

 

Il caso

Un condomino si è rivolto al tribunale di Lodi per ottenere un’ordinanza che imponesse ai comproprietari di un’unità abitativa di consentire l’accesso necessario alla sostituzione dell’impianto citofonico dell’intero edificio, intervento approvato dall’assemblea condominiale. Sebbene l’unità immobiliare fosse formalmente in comproprietà, era di fatto utilizzata esclusivamente da uno dei proprietari, il quale risultava irreperibile e inattivo nonostante i ripetuti solleciti dall’amministratore. Il tribunale ha quindi disposto che quest’ultimo permettesse l’ingresso ai tecnici incaricati, autorizzando, in caso di rifiuto, anche un accesso forzato.

 

Solidarietà e bilanciamento tra diritti

Il giudice basa la propria decisione su una concezione solidaristica del diritto condominiale, secondo cui la proprietà esclusiva non può ostacolare l’interesse collettivo legato alla conservazione e alla funzionalità dei beni comuni. Questo equilibrio si fonda sull’articolo 843 del Codice Civile, che permette l’accesso a una proprietà altrui per svolgere lavori necessari. Pur essendo costituzionalmente tutelato, il diritto di proprietà non è assoluto e deve cedere di fronte a esigenze comuni, come la sicurezza, la manutenzione o l’adeguamento tecnologico dell’edificio, purché le relative decisioni siano legittimamente adottate e proporzionate allo scopo da raggiungere.

 

Dovere di cooperazione del condomino

Il provvedimento si collega al dovere di cooperazione richiesto a ogni condomino, quale espressione dei principi di buona fede e correttezza. È precluso al condomino adottare comportamenti ostruzionistici, anche per semplice disinteresse o assenza, qualora tali atteggiamenti ostacolino la realizzazione di opere comuni. L’obbligo di consentire l’accesso non rappresenta una limitazione straordinaria del diritto di proprietà, ma costituisce un naturale complemento della vita in condominio e della collaborazione necessaria tra i partecipanti alla comunione.

 

Distinzione tra titolarità e possesso

La sentenza si concentra principalmente sulla differenza tra la titolarità giuridica di un bene e il possesso reale. Solo chi ha un controllo effettivo sull’immobile può ricevere un ordine giudiziale e, qualora non vi ottemperi, subire le conseguenze coercitive. I comproprietari che non esercitano il possesso, non sono coinvolti in comportamenti ostruzionistici e hanno mostrato collaborazione, vengono sollevati da qualsiasi responsabilità.

 

Accesso forzoso e tutela della effettività

La sentenza riveste un’importanza significativa anche per l’effettività della tutela giurisdizionale. L’autorizzazione all’accesso forzato elimina la necessità di una fase esecutiva successiva e assicura la tempestiva realizzazione degli interventi condominiali. Rappresenta una prospettiva evolutiva dell’articolo 843 del Codice Civile, che permette al giudice di predisporre un meccanismo di esecuzione immediata del proprio ordine, evitando così ritardi e ulteriori controversie.

La decisione si colloca nell’ambito della giurisprudenza consolidata (Cassazione 18494/2020, n. 24185/2019, n. 10404/2015), che interpreta l’articolo 843 del Codice Civile attraverso una lettura funzionale e cooperativa, adattandolo alle esigenze della moderna vita condominiale, dove gli impianti comuni spesso interessano proprietà private. Inoltre, fa indirettamente riferimento al principio di proporzionalità dell’ingerenza, limitando l’accesso ai tempi e alle modalità strettamente necessarie per eseguire gli interventi.

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Polizze condominiali: quando l’assicurazione non paga (ma dovrebbe)

Non c’è copertura solo in caso di dolo, deve esserci in caso di colpa

 

Due pronunce, rispettivamente del Tribunale di Lecce (24 febbraio 2025, n. 616) e del Tribunale di Ragusa (22 ottobre 2024, n. 1618), hanno riacceso il dibattito su un tema che riguarda da vicino la vita quotidiana di milioni di italiani: la copertura assicurativa per i danni all’interno dei condomini. In entrambi i casi, è stato negato il risarcimento per danni derivanti da infiltrazioni d’acqua e dal crollo di un controsoffitto. I giudici hanno stabilito che tali eventi non costituiscono «eventi accidentali», attribuendone l’origine alla carenza di adeguata manutenzione.

 

L’evento accidentale

Il punto è fondamentale: se l’evento non è accidentale, la compagnia assicurativa potrebbe rifiutarsi di pagare. Ma è davvero così? La Corte di Cassazione ha da tempo un’opinione diversa. Secondo la Suprema Corte (sentenza n. 4799/2013), l’assicurazione per la responsabilità civile non copre solo gli incidenti imprevedibili, ma anche quelli causati da colpa, vale a dire dovuti a negligenza o disattenzione, a patto che non ci sia dolo. Altrimenti, la polizza perderebbe di utilità: nessuno stipulerebbe un’assicurazione contro un rischio che, per definizione, non può verificarsi.

Inoltre, la Cassazione (sentenza n. 20070/2017) ha chiarito che il termine “accidentale” non equivale a “fortuito”, ma si limita a indicare un evento non doloso. Con la sentenza n. 3051/2024, la Corte ha ulteriormente confermato che escludere i fatti colposi equivale a svuotare il contratto del suo significato.

L’ambiguità della clausola

Un principio fondamentale nei contratti assicurativi, spesso redatti in modo tecnico dalle compagnie, è che ogni incertezza deve essere risolta a favore dell’assicurato, come stabilito dall’articolo 1370 del Codice Civile. Pertanto, una clausola ambigua non può essere interpretata in senso sfavorevole per il condominio.

Sul piano pratico, tuttavia, gli amministratori devono agire con cautela. Molte polizze escludono infatti i danni causati da impianti non conformi alle normative o da mancata manutenzione. Ad esempio, se si verifica una perdita dovuta a tubature vecchie mai sostituite o se l’impianto elettrico non è adeguatamente aggiornato, la compagnia assicurativa ha il diritto di negare il risarcimento.

Consigli pratici

Per evitare spiacevoli sorprese, è fondamentale esaminare attentamente le clausole di esclusione, verificare le franchigie, controllare la durata del contratto e considerare l’aggiunta di coperture extra per danni causati da acqua, eventi atmosferici o problemi elettrici.

In definitiva, la normativa è chiara: la copertura assicurativa deve includere i fatti colposi, con esclusione del dolo (Cassazione 3762/2022). Tuttavia, nella pratica, tutto dipende dalla formulazione della polizza. Spesso, tra una clausola e l’altra, sono proprio i condòmini a trovarsi esposti, letteralmente e figurativamente.

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Acqua più sicura: confermata la prima valutazione dei rischi entro il 12 gennaio 2029 per i condomìni

Rafforzati da subito i controlli su materiali e dispositivi utilizzati per lo stoccaggio, il trattamento e la distribuzione

 

Un recente decreto legislativo ha rivisto e potenziato le norme relative alla qualità dell’acqua destinata al consumo umano, stabilendo criteri più rigidi per materiali, dispositivi e sostanze che vengono a contatto con l’acqua potabile. L’intento principale è garantire maggiore sicurezza e migliorare la qualità dell’acqua che utilizziamo quotidianamente nelle abitazioni e nei condomini.

 

Dalla certificazione al rischio: il cambio di prospettiva

Il fulcro del cosiddetto Decreto Acque non risiede tanto nella certificazione successiva, seppur potenziata, della potabilità dell’acqua, che riflette una situazione già avvenuta e serve principalmente a prevenire un uso prolungato di acqua contaminata. La vera novità è costituita dall’adozione di un approccio basato sul rischio, pensato per garantire la sicurezza idrica in modo preventivo (articolo 6, punto 1).

Questo modello introduce la valutazione e la gestione del rischio nei sistemi di distribuzione interna degli edifici, un’attività che spetterà ai responsabili della distribuzione interna, tra cui anche l’amministratore di condominio (articolo 2, punto 1, lettera q).

 

La prima valutazione a gennaio 2029

Non si tratta più semplicemente di intervenire in seguito a un’anomalia, ma di adottare misure preventive che permettano di gestire i rischi prima che si verifichino. La prima valutazione dovrà essere effettuata entro il 12 gennaio 2029, caricata sulla piattaforma AnTea, riesaminata ogni sei anni e aggiornata se necessario, come indicato all’articolo 6, punto 8. Inoltre, dovrà essere accessibile all’autorità sanitaria locale e conservata per almeno sei anni dalla sua elaborazione iniziale.

Nonostante la scadenza per la prima valutazione sia fissata al 2029 e quindi al momento non obbligatoria, è importante considerare quanto stabilito dal secondo comma dell’articolo 40 del Codice penale: «non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a causarlo». Questo principio si rivela significativo anche in contesti condominiali.

Si pensi, ad esempio, a una cisterna sotterranea in muratura situata vicino a tubazioni fognarie o pozzetti per la raccolta delle acque meteoriche. In particolari circostanze, questa cisterna potrebbe contaminare la riserva idrica del condominio. In situazioni del genere, intensificare i controlli analitici servirebbe unicamente a confermare un’eventuale contaminazione già avvenuta, senza contribuire in alcun modo alla sua prevenzione.

 

L’obbligo di prevenzione

Un amministratore che si limiti a svolgere verifiche periodiche senza implementare misure preventive non è in grado di impedire l’accadere di un evento, ma solo di limitarne gli effetti successivi. Per questo motivo, la mancata adozione di provvedimenti adeguati potrebbe comportare una responsabilità penale per omissione, come previsto dall’articolo 40, comma 2, del Codice Penale.

Di conseguenza, è consigliabile non attendere la scadenza del 12 gennaio 2029, ma avviare fin da ora un’attenta valutazione dei rischi, proteggendo così sia la salute dei condòmini che la professionalità dell’amministratore.

 

Il Dlgs 19 giugno 2025, n. 102

Il Decreto Legislativo 19 giugno 2025, n. 102, amplia il sistema di tutela già esistente, introducendo ulteriori normative riguardanti materiali, trattamenti e controlli in ogni fase della filiera dell’acqua potabile. Le nuove disposizioni non si limitano agli acquedotti, ma interessano anche gli impianti interni agli edifici, comprendendo tubazioni, serbatoi e le apparecchiature destinate alla distribuzione dell’acqua fino alle abitazioni.

Due le nuove definizioni chiave introdotte:
• Apparecchiature di trattamento dell’acqua, come addolcitori e filtri, utilizzate per migliorare le caratteristiche dell’acqua in casa o nei condomìni;
• Prodotti, ossia tutti gli oggetti o materiali che entrano in contatto con l’acqua potabile – rubinetti, filtri, serbatoi, dispositivi di disinfezione.

Gli amministratori e i tecnici saranno quindi tenuti a controllare la conformità delle apparecchiature installate e garantirne una manutenzione adeguata, così da prevenire possibili episodi di contaminazione all’interno della rete.

 

Controlli più precisi e nuovi parametri di qualità

L’articolo 5 del decreto stabilisce che l’obbligo di rispettare i parametri di qualità dell’acqua si estende anche oltre il passaggio attraverso gli impianti di trattamento.

In pratica, dispositivi come addolcitori, filtri o sistemi di disinfezione dovranno assicurare che le caratteristiche qualitative dell’acqua restino invariate sia in entrata che in uscita.

Questo implica che non sia sufficiente garantire la sicurezza dell’acqua all’ingresso dell’edificio; essa dovrà risultare conforme anche dopo i trattamenti effettuati internamente.

 

Microplastiche sotto osservazione

Tra le nuove verifiche obbligatorie rientra anche il monitoraggio della presenza di microplastiche, un fenomeno in continua espansione a livello globale. Pur mantenendo le principali responsabilità di controllo sull’operato dei gestori del servizio idrico, il decreto ribadisce che la qualità dell’acqua deve essere garantita lungo tutto il percorso fino a raggiungere il rubinetto.

Nel suo complesso, il nuovo quadro normativo rafforza in modo significativo le garanzie per i cittadini. L’acqua destinata alle abitazioni sarà sottoposta a controlli più stringenti e a una tracciabilità più accurata, anche grazie alla collaborazione diretta degli amministratori di condominio e dei tecnici incaricati della manutenzione degli impianti.

In un periodo in cui cresce l’attenzione verso la qualità dell’acqua e la salvaguardia ambientale, il Decreto Acque e il Dlgs 102/2025 rappresentano un importante passo avanti: un sistema più sicuro, trasparente e attento, dalla fonte fino ai rubinetti domestici.

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